top of page
Immagine del redattoreBenedetta Antonelli

Alla radice della solitudine

In questi ultimi due anni con l’avvento della pandemia abbiamo assistito a fenomeni di smarrimento e solitudine dovuti principalmente al forzato isolamento...



Questo sentimento, stato d’animo o emozione come la si voglia definire, che probabilmente esisteva già seppur in stato embrionale, si è accentuato in modo esponenziale con conseguenze soggettive per ciascun individuo, come se la pandemia non avesse fatto altro che dare il colpo di grazia a situazioni già difficoltose.


Durante il periodo pandemico sono state organizzate dal Ministero della Salute delle task force di psicologi al fine di offrire sostegno alle persone in difficoltà. Ogni dato è stato raccolto e i risultati evidenziano una richiesta di sostegno per problematiche ansiose e dell’umore a cui però si sono aggiunte problematiche relazionali e un senso profondo di solitudine.

L’isolamento in casa ha, di fatto, amplificato le problematiche psichiche preesistenti e con esse la percezione di solitudine individuale e di vuoto sociale. L’emergenza ha destabilizzato persone che già vivevano situazioni di fragilità emotiva pregressa, ma ciò che è emerso in maniera significativa è che l’isolamento sociale forzato e l’impossibilità di rintracciare segnali di sicurezza all’interno delle relazioni sociali hanno impattato negativamente sulla stabilità psichica.


La solitudine è un fenomeno soggettivo.


Sì, perché di fenomeno soggettivo si parla. È infatti davvero difficile fornire una definizione univoca, la solitudine è infatti un qualcosa di profondamente intimo, ambivalente, “cucito” sull’esperienza che l’essere umano ha vissuto nella sua realtà e che ha segnato il suo vissuto.

La solitudine può derivare dall’esperienza devastante della perdita di una persona cara e risultare la conseguenza di una mancata capacità di elaborazione del lutto con conseguente percezione di abbandono o, ancora, dal sentirsi persi constatando la mancanza di una presenza quotidiana nella nostra vita come può essere quella di un partner, di un amico, di un genitore. Non di meno, anzi forse di causa più significativa si può parlare… la solitudine può essere spesso provocata dalla difficoltà di stabilire relazioni sociali soddisfacenti.

Anche da un punto di vista psicologico la solitudine appare come un fenomeno ambivalente con mille sfumature, significati, difficile da definire e descrivere. È una realtà umana dai contorni sfumati, è soggettiva, intima, con caratteristiche differenti a seconda della realtà che ciascuno di noi vive. Può rappresentare per alcuni un percorso di ricerca interiore, alla quale si può attribuire addirittura una valenza positiva, ma può assumere il significato di isolamento sociale per altri, fenomeno a cui abbiamo assistito soprattutto in questi ultimi due anni.


Essere soli è diverso dal sentirsi soli. Il dolore cronico della solitudine è una ferita lacerante che può alterare il nostro equilibrio fisiologico. E’ un giogo che trasforma il bisogno insoddisfatto dell’altro in sensazioni, pensieri e comportamenti ostili. La solitudine non è mai una sensazione ineffabile, è qualcosa di ben radicato nella nostra biologia, che coinvolge il corpo in maniera totale, dalla circolazione del sangue alla trasmissione degli impulsi nervosi. Le immagini del cervello ottenute con le nuove tecniche di neurovisualizzazione mostrano che le sensazioni di emarginazione sociale e il dolore fisico condividono lo stesso meccanismo fisiologico. Ma per comprendere perché la solitudine ci fa soffrire bisogna scoprire il passaggio evolutivo dal gene egoista all’essere sociale. Perché l’homo sapiens si è evoluto come specie superiore? La soluzione è nel “Terzo adattamento”: i fattori decisivi del successo riproduttivo dell’uomo si fondono sull’empatia, sulla cooperazione e sui legami sociali. Privarsi dello scambio con gli altri provoca uno strappo nel tessuto genetico che si espande nel nostro essere fino a pervadere le emozioni.


- Tratto da “Solitudine. L’essere umano e il bisogno dell’altro” J.T. Cacioppo, W. Patrick 2013



La solitudine... ai tempi moderni.


Molte persone oggi hanno avuto addirittura una nuova barriera di cui fruire per proteggersi dalla socialità, condizione ancor più accentuata dal progredire delle nuove tecnologie e dai social. Oggi spesso l’intermediario principale a cui si delega la nostra socializzazione è lo schermo di uno smartphone, che ci connette con gli altri ma che è divenuto troppe volte un filtro di protezione capace, illusoriamente, di preservarci dai rischi dell’ostracismo e del giudizio tipico della dinamica della socialità.

La realtà è che il dilagare del sentimento di solitudine deriva proprio dal non saper più affrontare lo stare con l’altro, l’instaurare un rapporto intimo e profondo ci risulta scomodo perché troppo complicato, a volte ricco di insidie. Emergono nel rapporto con l’altro le nostre paure e le nostre fragilità e sempre più spesso ci sentiamo deboli e privi di strumenti per affrontare l’intimità di uno scambio profondo. La solitudine in fondo può essere anche descritta in questo modo, un ritiro dal mondo per protezione. Questo meccanismo disfunzionale prende però vita dalle nostre insicurezze, in quanto il non riuscire nell’intenzione di instaurare un rapporto funzionale con l’altro è conseguenza diretta del non sentirsi risolti come persone, ovvero del non poter vantare un buon rapporto con noi stessi. Per capire la causa di questo disagio dobbiamo addentrarci nella trama delle nostre esperienze passate, del nostro vissuto e del modo in cui abbiamo reagito agli eventi della vita.

È risaputo che la felicità è un fenomento fugace, la si assapora per attimi ed è un sentimento che si apprezza perché contrapposto sempre al suo contrario (dolore); chi non sperimenta l’uno non potrà apprezzare l’altro, ciò a cui dovrebbe auspicare l’individuo è pertanto sempre un equilibrio “fra le parti”.

Per poter giungere a questo traguardo è necessario munirsi, oltre che di coraggio, di strumenti capaci di aiutarci a rileggere il nostro passato sotto una lente differente, nuova rispetto a quella con cui si è analizzato finora.


È a questo che serve il dialogo con l’inconscio: a costruire un ponte di collegamento tra gli episodi significativi che hanno costellato la nostra esistenza e il loro modo di esercitare influenza sul nostro presente, rivolgendoci direttamente alla nostra parte emotiva, custode della verità emozionale di ciascuno di noi”


- Tratto da "L’arte delle emozioni. La realtà rovesciata che non ti aspetti” S. Benemeglio - S. Stano; OM Ed. BOLOGNA


La Filosofia Analogica® come chiave di lettura


La Filosofia Analogica®, frutto degli studi condotti dallo psicologo Stefano Benemeglio, insegna specificatamente nella pratica e nella dimostrazione in tempo reale come andare alla ricerca degli episodi topici che hanno contribuito e dato corpo alla condizione odierna di disagio emozionale, permettendo al fruitore di scoprire legami e analogie fino a quel momento sconosciute e di rileggere gli accadimenti sotto una lente differente. Nello specifico lo strumento del dialogo con l’inconscio permette l’instaurarsi di un vero e proprio dialogo con la nostra parte emotiva più profonda col fine di far riemergere eventi della nostra vita, magari dimenticati o considerati dalla nostra parte logica non rilevanti. Questi ultimi sono in realtà quanto mai significativi e hanno lasciato strascichi indelebili nell’anima, segni di cui ancor oggi troviamo traccia nell’incapacità di realizzazione dei nostri sogni e di compiere scelte importanti per noi stessi in piena libertà.

L’approccio benemegliano è senza dubbio rivoluzionario perchè la possibilità di “parlare” con l’emotività, sebbene paia strano, è la forma più rapida e diretta per bypassare la razionalità e comprendere le vere ragioni dello stato di malessere vissuto.

Ho parlato di rivoluzione perché di questo si tratta, rispetto ad altre forme di riequilibrio emozionale infatti non vi è interpretazione alcuna da parte di terze persone di ciò che emerge dall’indagine, ma solo ascolto profondo di se stessi, ascolto che accompagna la capacità di guardare in faccia i propri demoni e recuperare così quell’energia e forza propulsiva che ci spinge all’azione abbandonando gradualmente la paura, che tende invece a paralizzare gli individui in situazioni di stallo.

Questa stessa paura è la madre di ogni solitudine e disporre di una tecnica capace di comprenderne le ragioni nascoste è un’opportunità unica, che nella vita può rappresentare una mano tesa che salva.


8 visualizzazioni0 commenti

Comments


bottom of page